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LA VERA INVALIDITA' E' SOLO DENTRO DI NOI - Lusaka (Zambia), Agosto 2010

Venti. Trenta. Cento. Vogliamo subito sapere quanti sono. Perchè, quando riescono ad arrivare, per noi non sono che degli intrusi, dei numeri che ci rubano il posto in una fila, che ci sottraggono il lavoro, che invadono i nostri marciapiedi. E quasi mai ci chiediamo quali siano i loro nomi, le loro storie.

Spesso, il loro è un viaggio che verrà respinto prima ancora di iniziare. È il cammino di chi, senza valigie e tanta paura nello stomaco, attraverso il buio nero di notti confuse ad acque affamate, penetra le tenebre con la speranza negli occhi.

Molte volte, è la lenta traversata di un barcone diretto verso la morte che lo travolgerà nella sua onda marchiata di anonima clandestinità. Sotto un cielo di nessuno.

Altre ancora, è l'eterna fuga di un'esistenza perseguitata, è un getto d'inchiostro su un foglio di via.

Ma questa volta il viaggio è inverso: io, pelle bianca e un passaporto che sembra più un “passepartout”, parto per l'Africa nera.

La sensazione che si prova appena si mette piede in quella terra è che improvvisamente tempo e spazio si siano dilatati.

In Africa la terra è una distesa immensa e interminabile che accentua quel senso di smarrimento tipico di noi occidentali. Il cielo è infinito e troppo vicino per entrare tutto nei nostri occhi aperti a metà. Lì la notte è troppo nera per chi, come me, proviene da strade invase dalla luce fredda dei lampioni. E ti trovi di fronte a un sole che ti sembra di un rosso troppo vivo per poter essere compreso fino in fondo dalla tua anima un po' sbiadita.

Ma, dopo un po', ti accorgi che c'è una parte dell'Africa che, squarciando quell'involucro di pelle a tenuta stagna, scassina ogni serratura e ti piomba dentro.

Questa è Kanyama, con la sua vita che ti viene incontro, con la sua gente che sembra che ti aspetti da chissà quanto tempo, con quei suoi granelli che rimangono attaccati in qualche posto dentro te che nemmeno sapevi che esistesse. E' un odore che non riesci più a togliere via.

Kanyama è una vita che si sveglia all'alba, mentre il resto del globo ancora dorme, e che farà ritorno a casa solo al tramonto, quando avrà trovato qualcosa di cui sfamarsi. È la forza di un adulto in un corpo da bambino schiacciato dal peso di un sacco pieno di cemento. È una donna che passa la sua giornata seduta a terra a spaccare pietre.

Le donne. Lì le vedi incamminarsi su una strada fatta di buche, pietre e polvere rossa, con il loro fagotto sulla testa e i loro piccoli sulle spalle. E, quando le incontri, senti che stai incrociando una grande storia. La storia di tanti volti segnati da una sofferenza dignitosa, di tanti occhi da cui non vedrai mai scendere lacrime perché le uniche gocce d'acqua che attraversano la loro pelle sono quelle righe di sudore che cadono sulla polvere...passo dopo passo, colpo dopo colpo.

In quei luoghi conosci la tenacia di tanti bambini che frequentano il centro di fisioterapia del centro Shalom. Li vedi divorare la vita con l'unica parte del corpo che riescono ancora a muovere, gli occhi...quegli occhi che inseguono il suono di un vecchio carillon e che si fermano nei tuoi aprendosi in un sorriso che sa tanto di un “Non mollo!”.E ti illumini della luce di una mamma che, giorno dopo giorno, seduta dopo seduta, impara a trasformare le sue carezze in “massaggi terapeutici”!

Kanyama è nel canto della Mulela School. Lì, spingendo una porticina, il vento ti scaraventa in pochi metri quadrati fatti di oscurità dove troverai Susan, Hellen e i loro alunni ad accoglierti con i loro sorrisi, la loro gioia di vivere, le loro voci. E anche se non c'è energia elettrica, anche se non entra sole da quei mattoni, anche se non ci sono libri e penne a sufficienza, vanno avanti perché loro la luce ce l'hanno dentro e non demordono! E fra quelle pareti troppo strette per starci tutti insieme trovano sempre un po' di spazio anche per te e una sedia per far riposare la vergogna che stai provando da quando i tuoi piedi hanno toccato la terra di Kanyama. Allora pensi che la vera “invalidità” è dentro noi, nelle nostre anime, in quei muri che frapponiamo fra noi e loro, nei ghetti nascosti della nostra mente in cui releghiamo quegli scomodi “numeri”, in quella paura di scendere dal marciapiede e di mischiarci con la strada...

L'Africa dei miei occhi è in un pomeriggio trascorso al centro Nyawa, in un'aula gremita di donne con figli attaccati ai seni, di uomini e di qualcuno che, senza l'uso delle gambe, si è trascinato lì con le mani a terra...perchè la trovi sempre un'alternativa alla sedia a rotelle pur di restare attaccato alla vita: cammini sulle mani! E, quel giorno, attraverso una catena di passaparola, si erano raccolti tutti in quel posto, chi seduto a terra, chi sulle panche, per iscriversi al corso di microcredito, per iniziare da zero un'attività, per guadagnare quel minimo che consenta di pagare l'affitto di una baracca, l'istruzione per un figlio, un funerale o semplicemente qualcosa da mettere nel piatto. E quell'aula non stava scoppiando per il respiro affannoso della fatica fatta, ma per la carica di entusiasmo e di passione che si sprigionava dai loro volti.

Ma Kanyama è soprattutto una grande lezione di vita.

Parti con una sfrenata voglia di fare, di aiutare, di dare. Ma ti accorgi di quanta impotenza c'è dentro di te quando ti trovi di fronte a una testa china, quando non riesci ad incontrare lo sguardo sfuggente di un bambino di strada che vive di polvere, colla e fame, quando dal finestrino della jeep vedi scorrere le immagini di una vita passata a cercare pezzi di carbone in una discarica di rifiuti appena arsi.

Tu, che avevi messo nelle valigie le tue scuse per essere parte di quel mondo che gli ha tolto risorse e diritti, capisci che non puoi svuotare il tuo peso. Non serve, non salva, non basta!

Tu, abituato a rincorrere il tempo, ad esserne schiavo, ad avere il terrore di inciampare nel vuoto di un'attesa, ad essere travolto dai tuoi “fare incessanti”, inizi a sentirti finalmente “inutile” e ti rendi conto che non è quello il posto in cui devi chiederti cosa fare. Perchè lì le persone non chiedono nulla, le vedrai solo correre verso di te, sorridenti, per sapere come stai, per urlarti con gioia il loro saluto, per farti sentire che sei il benvenuto fra loro. Impareranno subito il tuo nome e lo grideranno affinché tu sappia che non ti dimenticheranno mai.

Allora, capisci che in quel luogo puoi solo lasciarti “aiutare” da loro...a condividere, ad ascoltare, ad “incontrare”, a scorgere il senso della vita.

E quello che ti porti dietro nel bagaglio interiore, quello che ti resta quando torni, non è il ricordo di quel poco che fai, ma sono tutti quei momenti in cui siete stati vicini ad ascoltarvi nel silenzio di un tempo che non esiste, in quei luoghi dell'anima dove non esistono “disparità”.

Così, lentamente, scopri che le tue braccia sono rami a cui aggrapparsi per dondolare in aria a testa in giù e il tuo corpo è il tronco di un albero su cui quelle piccole mani cercano di arrampicarsi. Ti accorgi che le tue gambe non sono giunte fin lì per correre in soccorso di qualcuno, ma per imparare a fermarsi sulla strada e lasciarsi coinvolgere in una partita di calcio improvvisata con un pezzo di carta stropicciata. Senti che le tue mani non sono venute da lontano per dare qualcosa, ma per lasciarsi guidare dalla loro cultura, dalle loro abitudini, dal loro talento nel trasformare il nulla che hanno in un originale tavolo da biliardo.

Ed è grazie a loro se l'anima che ora sgorga da questa penna è riuscita ad immortalare la scena più significativa, quella di una partita di basket fra i volontari e i ragazzi di Kanyama. E' bastato prendere un pallone e, man mano che la notizia faceva il giro del compound, il campo si è riempito. Per un po' è stato un bel gioco spalla a spalla, fra noi e loro. Ma poi, mentre accorrevano sempre più numerosi, noi siamo usciti dalla scena e abbiamo dato spazio ai bambini, ai ragazzi e alle giovani donne di Kanyama, lasciando che fossero loro i protagonisti di quella partita.

E' questa l'immagine più bella che io abbia potuto scattare. Quella di un'Africa che venga riconsegnata alla sua gente. E questa è l'Africa che è tornata insieme a me, dentro me. In un paese, il nostro, dove bisogna chiedersi cosa fare affinché non sia il colore della pelle o l'appartenenza a un popolo a rappresentare la differenza fra un diritto e un reato.

Perchè è da qui che inizia il vero viaggio. Dal ritorno. Quando, camminando sull'asfalto, incontro due occhi grandi che mi riportano sulle strade di Kanyama. Quando basta soffermarmi su un solo volto per percorrere intere esistenze. Quando, durante la notte, sento battere nello stomaco una responsabilità che prima non sfiorava nemmeno la mia pelle. Quando avverto che questa forte nostalgia inizia a muoversi in una nuova direzione nuova. Verso un'Africa cui sia restituito il diritto di sognare.

Filomena Di Siena, volontaria a Lusaka in Zambia - Agosto 2010

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