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Articolo di Roberta, volontaria in Servizio Civile in Kenya

Arriviamo a Githurai Kimbo. Scendiamo dalla moto e ci incamminiamo tra le viuzze polverose alla ricerca della casa di J. Non ricordiamo bene la strada da prendere ma, fortunatamente, ecco che spunta un sorriso da dietro l’angolo. È lei, J. Ha pensato bene di venirci incontro.

J. è stata una beneficiaria del nostro progetto “mamma-bambino”. È una donna sieropositiva che abbiamo accompagnato durante tutta la maternità - dalla gravidanza, alla nascita, allo svezzamento del neonato – al fine di prevenire la trasmissione del virus da lei al piccolo.

Oggi, per me, è la prima volta che la incontro di persona.

J. mi colpisce subito. Il suo sorriso è così bello e carico di un’energia particolare.

La seguiamo. Raggiungiamo un cancello color azzurro che, una volta attraversato, ci porta in un piccolo giardinetto. Qualche capretta sta approfittando della poca erba rimasta.

Di fronte a noi due file di baracche separate solamente da una piccola striscia di terra dove penzolano i panni ancora inzuppati.

Facciamo lo slalom tra i diversi capi di abbigliamento e raggiungiamo l’ingresso di casa sua.

La casa è piccola ma piuttosto accogliente. Sulla destra un tavolino dove poggia la macchina da cucire con la quale J. porta avanti il suo business. Fa decorazioni in perline per i sandali masai. Poco distante l’unico scaffale presente in casa sopra il quale giacciono una piccola televisione accesa e i pochi libri a disposizione. Sulla sinistra una poltrona mentre, di fronte a noi, un divano dove siedono le sue tre bimbe, tutte vestite da principessine.

J. ci invita a sederci e inizia a raccontarci del più e del meno, sorridendo per i miei sforzi di comprendere e parlare il kiswahili.

Ci racconta del business, delle sue bimbe e delle relative difficoltà. Il tutto in maniera molto pacata e serena. I suoi occhi brillano e il suo sorriso è contagioso... sorriso che mai diresti poter celare un passato fatto di violenze e di difficoltà.

Ad un certo punto invita le bimbe ad uscire. Il motivo di ciò lo capirò solo successivamente. «Quando ho scoperto di essere sieropositiva non l’ho detto subito a mio marito. Avevo troppa paura della sua reazione».

Mi racconta di quanto sia stato difficile non solo scoprire ed accettare la malattia ma soprattutto continuare con la propria vita facendo finta di nulla e tenendo la cosa all’oscuro da tutti. «Dovevo prendere le medicine di nascosto. Stessa cosa vale per le visite in ospedale. Non dovevo farmi beccare».

In Kenya, lo stigma e la discriminazione sono tuttora radicati e parte integrante della quotidianità. Dire che sono lì, ad aspettare dietro l’angolo, sarebbe dire poco. Sono molto ma molto più vicini. Sono dentro le mura - o meglio, le lamiere - di casa.

Continua raccontandomi di quando aveva ormai raggiunto un punto di non ritorno.

«Non potevo più continuare a vivere in quel modo. Era troppo stressante. Così, ho deciso di parlare a mio marito. Sicuramente mi sono tolta un fardello ma, non posso negare, di essermene presa uno ancora più pesante».

Dopo avere scoperto lo stato della moglie, l’uomo ha infatti cambiato completamente atteggiamento nei suoi confronti e per J. è iniziato l’incubo. «Mi picchiava continuamente. Mi colpiva ovunque, testa compresa. Sono finita all’ospedale parecchie volte. Una volta mi ha anche spaccato la mano. Sono tornata con il gesso e in quel periodo non ho potuto nemmeno lavorare».

Violenza fisica e anche psicologica.

«Capitava che, dopo avermi picchiata, mi cacciava fuori di casa con le bimbe e nel bel mezzo della notte». La situazione era diventata insostenibile e fu così che J. lasciò la casa del marito per rifugiarsi dalla sua famiglia. La ascolto senza interrompere.

J. mi dice che adesso è tornata a Nairobi e vive nuovamente con il marito. Mi spiega che, dopo le varie denunce alla polizia, è tornato da lei chiedendole scusa e hanno intrapreso un percorso di “couselling” insieme. Lui è tornato quello di prima e la violenza è finita.

Non so se abbia fatto bene o no. Se sia giusto o sbagliato. I pensieri che mi frullano nella testa sono già parecchi e non ho né voglia né tantomeno mi sento all’altezza di esprimere un mio parere a riguardo.

Tutta questa storia mi fa sentire piccola, una sensazione che mi capita di provare spesso qui.

Tante storie, situazioni e dinamiche che a me sembrano semplicemente assurde. Così lontane da me che quasi fatico a percepirle come reali.

Riesco solo a dirle che è una donna forte. Molto forte. Lei mi sorride.

Fragilità e forza. Violenza e resilienza. È tutto lì. Tutto insieme. Davanti ai miei occhi.

Torno in ufficio e prendo tra le mani la sua scheda personale per aggiornarla. Tendiamo a monitorare le nostre mamme anche dopo avere terminato il percorso con noi.

Leggo “1997”. J. ha ben 4 anni in meno di me.

Dire di sentirmi piccola adesso è dire poco.

Roberta Bernasconi, volontaria in Servizio Civile Universale a Nairobi

 

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